Giuseppe Talamo
L’avvicinarsi del 150° anniversario della creazione dello Stato italiano (17 marzo 1861-17 marzo
2011) esige una riflessione che consenta di formulare sull’evento un giudizio basato sulla
ricostruzione degli avvenimenti che portarono alla nuova sistemazione del nostro paese e,
insieme, sulla conoscenza delle interpretazioni che le varie generazioni succedutesi nel corso del
tempo ne hanno dato, in Italia e fuori d’Italia. Infatti, al pari dell’opera d’arte che vive anche nelle
critiche e nei contrastanti giudizi che vengono via via formulati, così un evento storico, che non
voglia essere utilizzato ai fini di polemiche politiche correnti -secondo un deprecabile “uso
pubblico della storia”- richiede una analoga, meditata e paziente attenzione.
Il primo problema che ci si presenterà sarà costituito dalla rapidità con cui in circa due anni, dalla
primavera del 1859 alla primavera del 1861, nacque da un’Italia divisa in sette Stati il nuovo regno
: un percorso che parte dalla vittoria militare degli eserciti franco-piemontesi nel 1859 e dal
contemporaneo progressivo sfaldarsi dei vari Stati italiani che avevano legato la loro sorte alla
presenza dell’Austria nella penisola e si conclude con la proclamazione di Vittorio Emanuele II re
d’Italia.
A partire dal 1849 gli Stati italiani si erano trovati di fronte a un dilemma : o rinnovarsi all’interno
in senso costituzionale e combattere, insieme con lo Stato sabaudo, l’Austria, con il pericolo di
vedersi assorbire presto o tardi da un Piemonte ingrandito, oppure allearsi strettamente con
l’Austria e appoggiarsi agli elementi più conservatori all’interno, con il risultato di separarsi dalle
forze politicamente e culturalmente più vive del paese. Quegli Stati scelsero questa seconda
soluzione e riuscirono così a procrastinare di un paio di lustri la loro caduta, ma il fatto che si
siano trovati in una situazione politicamente chiusa, senza alternative, dimostra che la loro
funzione storica era esaurita.
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Le testimonianze di questo sfaldarsi non mancano : pensiamo, ad esempio, al granducato di
Toscana. Un moderato sostenitore della “Toscanina”, cioè dell’autonomia del granducato, Marco
Tabarrini, nel suo Diario 1859-1860, il 16 aprile del ‘59 -quindi pochi giorni prima dell’inizio
delle ostilità fra le truppe franco-piemontesi e quelle austriache- nel descrivere la partenza da
Livorno dei volontari toscani per il Piemonte, “spettatrice e quasi cooperatrice l’Autorità”,
sottolineava la “passività” del governo che non sapeva “né contenere il paese né andare con lui”.
Ma anche il maggiore Stato della penisola, il regno delle Due Sicilie, che pure con l’ascesa al trono
di Ferdinando II nel 1830 aveva conosciuto momenti di vivace attività economica e culturale,
presentava un forte elemento di debolezza soprattutto in quella “separazione del potere dalla
società” che lo storico Luigi Blanch, legato peraltro alla monarchia borbonica, aveva già
sottolineato in una Memoria sullo stato del regno di Napoli scritta nel dicembre 1830. Quella
separazione si era andata aggravando con gli anni e non poteva certo essere cancellata dalla
concessione da parte di Francesco II, il 25 giugno 1860, quando Garibaldi aveva già liberato la
Sicilia, della costituzione del 1848 “in armonia co’ principii italiani e nazionali”. Essa ebbe, invece,
l’effetto di rendere ancora più confusa e contraddittoria la politica del governo napoletano,
scardinando completamente la sua organizzazione interna, disorientando il vecchio ceto dirigente
e non guadagnando certo l’appoggio della borghesia liberale.
Tra il 1859 e il 1860 non ci fu quindi uno vero scontro tra l’elemento liberale e le vecchie classi
dirigenti ma una rassegnata accettazione della nuova realtà da parte di queste ultime. Solo nel
regno meridionale si manifestò una qualche resistenza, dopo la perdita della Sicilia e l’ingresso di
Garibaldi a Napoli (7 settembre), senza colpo ferire, con la battaglia del Volturno e la difesa di
alcune fortezze.
Ma le condizioni politicamente deboli degli Stati della penisola, perchè basate unicamente sul
sostegno dell’Austria, non potrebbero spiegare la creazione del nuovo Stato. Occorrerà riflettere,
invece, sia sul suo principio fondante -quello della nazionalità- sia sull’atteggiamento delle
potenze europee nei confronti del problema costituito dalla sistemazione politica dell’Italia.
Il principio di nazionalità, infatti, teorizzato da Pasquale Stanislao Mancini dalla sua cattedra
nell’università di Torino come il nuovo “diritto delle genti”, era considerato dalle cancellerie
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europee un principio rivoluzionario in grado di sconvolgere la carta politica dell’Europa e
giustificare le aspirazioni all’indipendenza delle varie minoranze europee a cominciare da quelle
polacche che vivevano in Russia e in Prussia. Questo, e non solo la difesa del legittimismo, spiega
il ritiro degli ambasciatori da Torino da parte della Francia (13 settembre), della Russia (17
settembre), della Spagna (26 ottobre) e della Baviera (10 dicembre) negli ultimi mesi del 1860,
dopo il successo della spedizione garibaldina nel mezzogiorno d’Italia.
Ma, insieme ai timori per il diffondersi del principio di nazionalità, si andava rafforzando anche in
Europa la consapevolezza dell’importanza della “questione italiana”. Per secoli la penisola aveva
costituito il principale motivo di contrasto tra la Francia e gli Asburgo e la sua spartizione si era
ripetuta tra il XVI e il XVIII secolo. Il 1859 stava per confermare questi precedenti, sostituendo
una forte presenza della Francia -ipotizzata nella Toscana ma forse anche nel Mezzogiorno con
Luciano Murat al posto dei Borbone- che avrebbe sostituita quella austriaca. La stessa
conclusione del trattato di Zurigo che aveva posto fine alla guerra del 1859 tra regno sardo,
Francia ed Austria, aveva confermato questa situazione in movimento quando aveva stabilito che
i sovrani spodestati avrebbero dovuto essere restaurati ma non con l’uso della forza ( e come,
allora?).
Cominciò così a diffondersi la convinzione che l’Italia unita avrebbe potuto costituire un
elemento di stabilità per l’intero continente. Invece di essere terra di scontro tra potenze decise
ad acquistare una posizione egemonica nell’Europa centro-meridionale e nel Mediterraneo,
l’Italia unificata, cioè un regno di oltre 22 milioni di abitanti, avrebbe potuto rappresentare un
efficace ostacolo alle tendenze espansioniste della Francia da un lato e dell’impero asburgico
dall’altro e, grazie alla sua favorevole posizione geografica, inserirsi nel contrasto tra Francia e
Gran Bretagna per il dominio del Mediterraneo.
Nel rapidissimo riconoscimento del regno da parte della Gran Bretagna e della Svizzera il 30
marzo 1861, ad appena due settimane dalla sua proclamazione, seguito da quello degli Stati Uniti
d’America il 13 aprile 1861, al di là delle simpatie per il governo liberale di Torino, ci fu anche un
disegno, anche se ancora incerto, sul vantaggio che avrebbe tratto il continente europeo dalla
presenza del nuovo regno. Nello stesso riconoscimento del regno d’Italia da parte della Francia,
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avvenuto nel giugno 1861, poco dopo l’improvvisa scomparsa di Cavour, al di là della dichiarata
emozione per la fine del grande statista, ci fu anche la preoccupazione per la presa di posizione
della Gran Bretagna che con tanta rapidità aveva riconosciuto la nuova realtà politica italiana.
Questo elemento -cioè il favore di buona parte dell’Europa nei confronti del nuovo regno- deve
essere adeguatamente valutato per comprendere i motivi per i quali il movimento unitario e la
stessa indiscussa abilità di Cavour riuscirono a cambiare rapidamente e radicalmente la carta
geografica della penisola. Tanto più che l’alternativa era costituita dalla restaurazione di Stati privi
di forza propria, anacronistica sopravvivenza del legittimismo postnapoleonico, instabili perché
spesso teatro di sommosse e congiure sanguinose seguite da cruente repressioni : Stati di modesta
estensione e senza alcuna prospettiva di sviluppo economico, destinati ad essere emarginati
politicamente ed economicamente nel confronto con potenze europee sorrette da sistemi politici
ben più saldi e con strutture economiche in decisa espansione.
Certo il nuovo Stato non aveva tradizioni politiche univoche -insieme ad un centro nord con
tradizioni comunali e signorili c’era un mezzogiorno con tradizioni monarchiche fortemente
accentrate a Napoli- ma si basava su una nazione culturale di antiche origini che costituiva un
forte elemento unitario in tutto il paese, uno Stato -come scrisse all’indomani
della
conclusione della seconda guerra mondiale un illustre storico svizzero, Werner Kaegi- che cinque
secoli prima dell’unità aveva “una effettiva coscienza nazionale” anche se priva di forma politica.
Accadde così che non per “inganni” e “corruzioni” -come si può leggere talora in pagine ispirate
più dalla nostalgia che da una serena ricostruzione del nostro passato- ma per quella che
hegelianamente si sarebbe potuta chiamare “la forza delle cose”, un napoletano dell’antico regno
e un piemontese del regno subalpino “si fecero italiani non rinnegando il loro essere anteriore ma
innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere”, come scrisse Benedetto Croce nella sua Storia
d’Europa nel secolo decimonono dedicata nel 1932 a Thomas Mann, profetizzando un tempo in cui
“francesi e tedeschi e italiani” si sarebbero innalzati a europei e i loro pensieri si sarebbero
innalzati all’Europa e i loro cuori avrebbero battuto per lei “come prima per le patrie più piccole,
non dimenticate già, ma meglio amate”.